Notiamo che nel Nahju-l-balagah alcuni dei sahàbah [compagni] del Profeta vengono criticati e offesi, vengono accusati di aver usurpato il califfato. Ora, dal momento che tutti i sahàbah del Profeta sono probi, non è giusto attribuire questo tipo di affermazioni ad Alí (A), il Principe dei Credenti.[19]
Il termine arabo ‘suhbah’ significa ‘frequentarsi’, a prescindere dal periodo piú o meno lungo in cui ci si frequenta e a prescindere anche dal fatto che a frequentarsi siano due musulmani o un miscredente e un musulmano (Usdu-l-ghàbah di Ibni Athír; vol. I, pag. 3).
Tutte le scuole islamiche convengono sul fatto che con il termine ‘sahàbah’ [compagno] si indicano tutte le persone che, all’epoca del Profeta, sono entrate nell’Islam o hanno finto di avere accettato questa religione.
Molte delle scuole sunnite considerano probo ogni sahàbah, mentre le altre scuole islamiche sono di parere contrario, e sostengono che non esiste nessun valido motivo, nessuna prova per considerare tutti i sahàbah probi, anzi, tra i sahàbah del profeta dell’Islam (come tra quelli di ogni altro profeta) esistevano uomini retti e persone empie, e, addirittura, quelli che il sacro Corano chiama munàfiqun, e cioè gli ipocriti, quelli che fingono di essere musulmani, ma in realtà sono nemici dell’Islam. Il sacro Corano parla di queste tre categorie di persone, e dedica, addirittura, un’intera sura ai ‘munàfiqun’.
Da quanto abbiamo detto ora, possiamo distinguere i sahàbah del profeta in tre categorie: i probi, gli empi e i munàfiqun.
È ormai chiaro che la teoria della probità di tutti i sahàbah è errata.
Questa teoria è contraria al santo Corano, e, per dimostrarlo, citiamo tre esempi.
· Il Signore Eccelso, nel settimo versetto della LXI sura del sacro Corano, dice: “E chi è piú iniquo di colui che inventa menzogne contro Allah, nonostante venga chiamato all’Islam? E Allah non guida la gente ingiusta!”. Questo versetto si riferisce ad Abdullah Ibni Abí Sarh (che fu nominato da Uthmàn, durante il suo califfato, governatore d’Egitto). Egli mentí contro Dio e fu, per questa sua indegna azione, condannato a morte dal Profeta, che disse che era obbligatorio ucciderlo anche se si fosse aggrappato alle tende della sacra Ka´bah. L’autore dell’opera As-siratu-l-Halabiyyah (nel capitolo riguardante la conquista della Mecca) scrive: “Uthmàn, nel giorno della conquista della Mecca, portò Abdullah Ben Abí Sarh dal Messaggero d’Allah, chiedendogli di graziarlo. L’Inviato di Allah rimase in silenzio per un momento, nella speranza che qualcuno lo uccidesse – come spiegò, piú avanti, lo stesso Profeta – ma nessuno lo fece e il Profeta ritenne opportuno di graziarlo”
· In un altro versetto (sura IX, versetti 75-77), il Signore Eccelso afferma: “E fra loro ci sono quelli che hanno promesso ad Allah che: ‘In verità, se ci darà della Sua grazia, daremo certamente elemosine e saremo sicuramente probi’. Quando poi Egli ha concesso loro della Sua grazia, ne sono stati avari e hanno voltato le spalle, rifiutandosi [di obbedire ai Suoi comandamenti]. Ebbene, [Allah] ha lasciato [le tristi conseguenze de] l’ipocrisia nei loro cuori, [che vi rimarranno] fino al giorno in cui Lo incontreranno, e ciò perché violarono il patto che avevano stretto con Allah e per le menzogne che dicevano”
Questi versetti si riferiscono alla storia di Tha´labah, che chiese al Messaggero d’Allah di pregare Iddio affinché gli concedesse ricchezze. Il Profeta gli disse: “O Tha´labah, guai a te! Avere pochi averi ed esserne riconoscenti a Dio, è meglio che avere grandi ricchezze senza essere capaci di esserne grati”. Tha´labah rispose: “Giuro sul Dio che ti ha inviato, che se il Signore mi concederà beni e ricchezze, io, sicuramente, darò a ogni avente diritto ciò che gli spetta”. Il Profeta pregò allora per lui e il Signore gli concesse una grande ricchezza, che continuò man mano a crescere, fino a raggiungere enormi proporzioni. Tuttavia, quando l’Inviato di Allah gli chiese la zakàh dei suoi beni, egli, per avarizia, si rifiutò di pagarla, dicendo: “La zakàh è una forma di ‘jizyah’ [imposta che devono pagare le persone di fede non musulmana], e, dal momento che io sono musulmano, non sono obbligato a pagarla”. Dopo la morte del Profeta, Tha´labah mandò la zakàh dei suoi beni ad Abú Bakr, che si rifiutò di riscuoterla, cosa che fece anche Umar qualche anno dopo, all’epoca del proprio califfato. Dopo alcuni anni, all’epoca del califfato di Uthmàn, Tha´labah perí.[20]
Il Signore Eccelso, nella Sura della Prosternazione (versetto 18), dice: “Forse chi è credente è come chi è peccatore? Essi non sono uguali!”. Tutti gli esegeti e i narratori di hadith sciiti e sunniti convengono sul fatto che il summenzionato versetto, con ‘credente’, si riferisce ad Alí Ibni Abitàlib (A), e con ‘peccatore’ a Walíd Ibni Uqbah, che venne in seguito nominato governatore della città di Kufa dal califfo Uthmàn, e poi governatore di Medina da Muawiah e Yazíd.[21]
Ora ci chiediamo se è possibile accettare la teoria che sostiene che tutti i sahàbah del santo Profeta sono probi: nel primo esempio abbiamo visto che Abdullah Ibni Sarh mentí contro Dio e volle falsificare il Suo libro. Egli è stato considerato, dallo stesso Corano, per questa sua indegna azione, il piú iniquo degli uomini. Non si può dunque considerarlo probo e ben guidato, poiché, come dice lo stesso Corano: “…Allah non guida la gente ingiusta!”. Nel secondo esempio invece, Dio afferma che Tha´labah è un ipocrita e un mentitore. Nel terzo esempio infine, dice che Walíd Ibni Uqbah è un peccatore, un dannato, e che egli non potrà mai liberarsi dal castigo dell’Inferno. Egli, a Kufa, quando era governatore di questa città, una mattina, in stato di ebbrezza, eseguí la preghiera del mattino (che secondo la legge islamica consta di due rak´ah) in quattro rakah, dicendo, alla fine dell’orazione, la seguente frase: “Volete che aumenti ancora il numero delle rakah?”
Nonostante tutto ciò, alcune scuole sunnite sono convinte del fatto che queste tre persone (Abdullah Ibni Sarh, Tha´labah, Walíd Ibni Uqbah) sono probe, in quanto sahàbah del Profeta. I seguaci di queste scuole dicono che nessuno ha il diritto di smentirli, anzi li considerano puri, senza peccato, dicono che essi andranno tutti in Paradiso e che nessuno di loro andrà mai all’Inferno.
Bisogna dunque accettare le parole di Dio o seguire pedissequamente infondate ed errate teorie di questa o quella scuola?
Questa teoria, oltre a essere contraria ai versetti coranici, è altresí contraria alla tradizione [sunnah] del Profeta. A tal proposito, leggiamo insieme i seguenti hadith.
· Zu-th-thadiya, uno dei sahàbah del santo Profeta, era un uomo, all’apparenza, pio e devoto, che lasciava sbalordita la gente con le molte preghiere e gli abbondanti atti di adorazione che eseguiva. Egli, tuttavia, è il miglior esempio attraverso il quale è possibile confutare la teoria della probità di tutti i sahàbah del santo Profeta servendosi della sua nobile tradizione. Infatti, il Messaggero di Allah, a proposito di lui, diceva sempre: “È un uomo sul cui viso v’è il segno di Satana!”
Ibni Hajar Asqalàniyy, nel libro ‘Al’isàbah Fi Tamyizi-s-sahàbah’ (vol. I, pag. 439), narra che un giorno il Messaggero di Dio mandò Abú Bakr a uccidere Zu-th-thadiya; Abú Bakr lo trovò in stato di preghiera e ritornò senza ucciderlo. Il Profeta mandò allora Umar e anche lui disubbidí all’ordine del santo Profeta e ritornò senza ucciderlo. L’Inviato d’Allah mandò dunque il probo Alí (A), che non lo trovò, in quanto aveva già lasciato la moschea.
Ora ci chiediamo se è possibile che l’immacolato Profeta dica che nel volto di un ‘sahàbah probo’ vi sono i segni di Satana? È mai possibile che il Profeta ordini di uccidere un ‘sahàbah retto’?
È bene inoltre sapere che Zu-th-thadiya era uno degli acerrimi nemici dell’imam Alí (A). Egli capeggiò infatti i Khawàrij [Kharijiti] e fu ucciso nella battaglia di Nahrawàn (come lo stesso Profeta aveva predetto all’imam Alí (A)).
· Ahmad Ibni Shuaib Nisà’i, nell’opera ‘Khasà’isu Amiri-l-mu’minin Ali Ibni Abitàlib’ (pag. 238, cap. 59, hadith n. 179), dice che Abú Sa´id ha detto: “Eravamo dal sommo Profeta ed egli stava spartendo il bottino di guerra. A un certo punto, arrivò Zu-l-khuwaisirah, un uomo appartenente alla tribú dei Baní Tamím, e disse: “O Messaggero di Allah, sii equo!”. Il Profeta rispose: “Se non sono equo io, chi può allora esserlo? Se io non sarò equo, avrò peccato e sarò dei perdenti!”. Umar chiese al Profeta il permesso di uccidere quell’uomo, ma egli non glielo concesse, e disse: “Egli ha dei compagni, le cui orazioni e i cui digiuni sono tali che voi considerate le vostre preghiere e i vostri digiuni poca cosa in confronto alle loro. Essi recitano il Corano, senza che esso superi le loro gole. Escono dall’Islam come la freccia esce dal corpo della preda, senza minimamente sporcarsi, senza che colui che l’ha scagliata possa vedere su di essa la minima macchia di sangue. Il loro segno di riconoscimento è un uomo dalla pelle scura, che ha un braccio simile al seno di una donna, a un pezzo di carne, in movimento (Zu-th-thadiya). Essi si ribelleranno al migliore degli uomini [Alí (A)]”. Abú Sa´id dice altresí: “Attesto che ho sentito questo hadith dal Messaggero di Allah, e attesto altresí che Alí Ibni Abitàlib (A) li ha combattuti [i Kharijiti] e io ero con lui. Alla fine della battaglia, Alí (A) ordinò di trovare, tra i corpi degli uccisi, il corpo di quell’uomo, il quale fu trovato e portato da noi: era esattamente come lo aveva descritto il Messaggero d’Allah!”
· Nell’opera ‘Siratu Ibni Hishàm’ (vol. III, pag. 235) leggiamo che un gruppo dei sahàbah del santo Profeta si erano riuniti in una casa e cercavano di allontanare la gente dal Messaggero di Dio, il quale ordinò di bruciare quella casa e distruggere cosí la combutta.
· Mutaqqi Hindi, nell’opera ‘Kanzu-l´ummàl’, scrive: “Il Messaggero di Allah ha maledetto Hakam Ibni ´Às Ibni Umayyah, zio di Uthmàn e padre di Marwàn Ibni-l-hakam, e la sua progenie, dicendo: “Guai al mio popolo [che è minacciato] dalla progenie di Hakam Ibni ´Às!”. Si narra che Aishah disse a Marwàn: “Attesto che il Messaggero di Allah ti maledí assieme a tuo padre, quando non eri ancora nato”
Il Messaggero di Dio allontanò Hakam Ibni ´Às da Medina e lo mandò in esilio Marj, nei pressi della città di Tà’if, vietandogli di ritornare a Medina. Uthmàn, dopo la morte del Profeta, venne da Abú Bakr per intercedere in favore di suo zio, Hakam Ibni ´Às, permettendogli cosí di ritornare a Medina, ma Abú Bakr non accettò. Lo stesso fece con il secondo califfo, Umar Ibni-l-khattàb, ma anche lui si rifiutò di esaudirlo. Finché lo stesso Uthmàn divenne califfo e, violando l’ordine del santo Profeta, contrariamente alla condotta assunta dai primi due califfi, fece ritornare, con tutti gli onori, lo zio, Hakam Ibni ´Às, alla città di Medina, donandogli centomila dirham e nominando suo figlio Marwàn alla carica di consigliere del califfo. È interessante sapere che Marwàn, con la sua condotta, causò l’assassinio del califfo Uthmàn (la gente lo chiamava ‘Khaytun Bàtil’, che significa ‘filo corrotto’). Marwàn, in seguito, conquistò il potere e si stabilí in Siria, in qualità di califfo dei musulmani.
· Nel libro ‘Siratu Ibni Hishàm’ leggiamo: “Dodici dei sahàbah del Profeta, che erano munàfiq [ipocriti, falsi musulmani], per gettare discordia tra i musulmani, costruirono una moschea chiamata Masjidu-z-ziràr, dicendo di averla costruita per compiacere Allah. Per ordine del Messaggero di Allah, quella moschea, che in realtà era un centro nel quale si tramavano inganni e congiure contro l’Islam e i musulmani, venne demolita.
Le sopraccitate tradizioni del sommo Profeta, e molte altre, che per brevità non possiamo qui citare, confutano, in modo chiaro e deciso, la teoria della probità di tutti i sahàbah del santo Profeta. In effetti, le persone che il Messaggero di Dio condanna a morte o quelle a cui fa distruggere e bruciare le dimore, non possono certamente essere persone probe e giuste! Coloro che, come dice il sacro Corano, costruiscono la Moschea di Ziràr per gettare discordia tra i musulmani, come possono essere considerate persone rette e probe? Chi considera queste persone probe, nega in realtà la tradizione del nobile Profeta.
Riassumendo, possiamo dire che in base ai versetti e alle tradizioni citate non è assolutamente possibile accettare la teoria della probità dei sahàbah del Profeta e, perciò, l’obiezione che abbiamo citato all’inizio di questo paragrafo, è da considerarsi decisamente inconsistente. Non v’è dunque nulla di male se l’imam Alí (A) critica alcuni dei sahàbah del Profeta ed è insoddisfatto della loro condotta.
Inoltre, se è vero che in alcuni hadith del Nahju-l-balagah il santo Alí (A) critica e biasima alcuni dei sahàbah del Profeta, è anche vero che in altre tradizioni di questa sublime opera riserva i migliori elogi ai retti e fedeli sahàbah del Messaggero di Allah. A titolo di esempio, nel Nahju-l-balagah, il sommo Imam dice: “In verità, ai miei occhi nessuno è come i sahàbah di Muhammad (S). Essi facevano mattina con i capelli sconvolti e i volti pieni di polvere: adoravano Iddio tutta la notte, prosternati e in piedi, alternavano il viso e la fronte, appoggiandoli dinanzi a Dio sulla terra. Al ricordo della risurrezione, si agitavano in modo tale che era come se bruciassero sul fuoco. Sulle loro fronti si poteva chiaramente vedere il segno di lunghissime prosternazioni. Se in loro presenza veniva pronunciato il nome di Dio, piangevano cosí tanto da bagnare, con le lacrime, i propri colletti. Essi, al pensiero del castigo che temevano e del premio che speravano di ricevere [da Dio], tremavano come alberi in preda a un uragano ”[22]
La lunghezza di alcuni sermoni e alcune delle lettere del Nahju-l-balagah – come il Sermone degli Ashbàh e il ‘Patto di Màlik Ashtar’ – è superiore a quella che avevano i discorsi che venivano pronunciati e le lettere che venivano scritte agli inizi dell’Islam, all’epoca dell’imam Alí (A). È dunque lecito dubitare dell’autenticità di queste tradizioni.[23]
La lunghezza e l’uniformità di un sermone, di un discorso, non è cosa che necessiti di tradizioni e regole. Nei primi anni dell’avvento della religione islamica, gli oratori pronunciavano sermoni e discorsi di tutti i tipi: alcuni pronunciavano per lo piú discorsi lunghi e solo raramente sermoni brevi; altri invece si comportavano in modo contrario. Insomma, era l’oratore, a seconda dei casi e delle circostanze, a decidere della durata del suo discorso, del suo sermone.
Jahiz, nell’opera ‘Al-bayàn Wa-t-tabyin’ (vol. I, pag. 50), afferma: “Si narra che Qais Ibni Kharijah Ibni Sanàn, un giorno, dalla mattina alla sera, senza alcuna interruzione, abbia pronunciato un discorso senza ripetizioni né nelle frasi né nei concetti”
Zakiyy Mubàrak, nell’opera ‘An-nathru-l-Fanniyy’ (vol. I, pag. 59), afferma: “Suhbàn Wa’il[24], noto per i suoi lunghi sermoni, a volte parlava in pubblico per mezza giornata; nonostante ciò si narra che egli abbia anche pronunciato discorsi brevi.
Da quanto abbiamo finora detto deduciamo che anche all’epoca dell’imam Alí (A), gli oratori pronunciavano discorsi lunghi.
Anche i sermoni e le lettere del santo Alí (A) seguono questa norma: a volte sono assai lunghi e a volte corti e concisi.
Jàhiz afferma: “Umar non pronunciava sermoni molto lunghi, cosa che faceva invece Alí Ibni Abitàlib (A)”
Quanto abbiamo detto finora dimostra chiaramente l’inconsistenza di questa seconda obiezione.
Il Nahju-l-balagah possiede una particolare rima e in esso si notano classificazioni quali, ad esempio: l’istighfàr [il chiedere perdono a Dio] ha cinque significati, la fede poggia su quattro pilastri. Ora, nei primi anni dell’avvento dell’Islam, nessuno conosceva questa tecnica espressiva, la quale si diffuse solo nell’epoca della dinastia abbasside, dopo la fine del periodo della ‘jahiliyyah’, quando nacque la nuova letteratura araba. Concludiamo che è stato Sayyid Raziyy a scrivere il Nahju-l-balagah in questo modo [usando queste tecniche sconosciute all’epoca di Alí (A)].[25]
Parlare usando rime, se è fatto in modo naturale, senza affettazione, se non stanca coloro che ascoltano, è segno di eloquenza, facondia, e deve essere considerato un pregio per un discorso, un sermone. Se parlare, esprimersi usando rime è un difetto, perché allora troviamo ciò nel sacro Corano, nelle tradizioni del Profeta e nelle parole di molti degli oratori e dei letterati arabi? Cosí sono, ad esempio, le sure LI, LII, LIII e XCI. Tra le tradizioni del Profeta possiamo invece ricordare, a titolo d’esempio, le seguenti:
“Alà adullukum ´alà khayri Akhlàqi-d-Dunya Wa-l’àkhirah? Tasill man qata´ak, tu´ti man haramak, ta´tu ´amman zalamak” {Tuhafu-l´uqul, pag. 45}
“Afshu-s-salàm wa at´imu-ta´àm wa silu-l’arhàm wa sallu-l-layli wa-n-nasu niyàm”
“Ayyuha-n-nàs! Ismà´u wa´u: man ´àsha màta, wa man màta fàta; wa kullu mà huwa àtin àtin, laylun dàja wa naharun sàja, wa…”
Concludiamo dunque che il fatto che alcune delle tradizioni del Nahju-l-balagah contengano rime, è una decisa conferma della loro autenticità, e non può essere in nessun modo un motivo per dubitare sul fatto che esse appartengano realmente all’imam Alí (A).
Per quanto riguarda invece le classificazioni delle quali abbiamo parlato all’inizio, dobbiamo dire che esse, all’epoca dell’imam Alí (A), erano molto frequenti: le troviamo nelle parole e negli scritti degli oratori e dei letterati arabi, e, addirittura, anche in molte delle tradizioni del santissimo Profeta. A tal proposito, si faccia attenzione ad alcune di queste tradizioni:
“Esistono sei virtú che sono buone, ma quando appartengono ai seguenti sei gruppi acquistano un maggior valore: l’equità è cosa buona, ma quando questa virtú appartiene a coloro che detengono il potere, è cosa ancora migliore; la pazienza è cosa buona, ma quando questa virtú appartiene agli indigenti è cosa ancora migliore…” {Irshadu-l-qulúb del Daylamiyy, pag. 233}
“O musulmani, guardatevi dall’adulterio, poiché esso causa sei disgrazie: tre in questo mondo e tre nell’aldilà. In questo mondo: disonora, fa cadere nell’indigenza e abbrevia la vita. Nell’aldilà, invece, provoca l’ira divina, rende difficile la resa dei conti nel Giorno del Giudizio e viene castigato con la dannazione eterna”
Esistono molte altre tradizioni contenenti simili classificazioni. Per maggiori informazioni a riguardo, si possono consultare le opere ‘Al-khisàl’ del grande Shaykh Saduq, e ‘Al-mawà´izu-l-Adadiyyah’.
Per concludere è opportuno ricordare che le tradizioni del Nahju-l-balagah che contengono questo tipo di classificazioni, sono tutte autentiche e dotate di sicure e conosciute catene di trasmissione.
Quanto abbiamo detto è piú che sufficiente a dimostrare l’inconsistenza di questa obiezione.
Nel Nahju-l-balagah si parla di ‘wasàyah’ [tutela], ‘wasiyyah’ [testamento] e di Alí (A) in qualità di ‘wasiyy’ [successore]. Ora, questi termini compaiono solo nelle parole e negli scritti di Sayyid Raziyy, e, prima di lui, non venivano assolutamente usati. È questa dunque una prova del fatto che il Nahju-l-balagah è stato scritto da Sayyid Raziyy e poi falsamente attribuito ad Alí Ibni Abitàlib (A).[26]
La questione del testamento [wasiyyah] del sommo Profeta e dell’imam Alí (A) come successore [wasiyy] del Profeta, è sempre stato un problema noto e discusso, addirittura, già dall’epoca del sommo profeta Muhammad (S). Di tale questione parlano la maggior parte dei commenti coranici, delle raccolte di tradizioni, dei libri di storia, di teologia e di poesia. Il grande Allàmah Aminí, nella sua storica opera (in undici volumi) Al-ghadír, cita le opere di tutti i poeti che hanno composto versi per ricordare l’evento di Ghadir, dall’epoca del santo Profeta fino ai nostri giorni. Oltre a ciò ricordiamo la tradizione di Ghadir, la cui autenticità è accettata, con assoluta decisione, da sciiti e sunniti, da tutte le scuole islamiche. Essa è una delle piú salde prove del fatto che Alí (A) è l’immediato ‘wasiyy’ [successore] del sommo Inviato di Allah.
Secondo la legge islamica, ogni musulmano, è obbligato a fare testamento dei propri beni, dare disposizioni riguardo ai propri debiti e designare un ‘wasiyy’ [esecutore testamentario] che, dopo la sua morte curi l’esecuzione delle disposizioni testamentarie. Nel ‘Sahih di Bukhàri’ (vol. III, pag. 2), e nel ‘Sahih di Muslím’ (vol. IV, pag. 10), leggiamo la seguente tradizione del santo profeta Muhammad (S): “Nessun musulmano, che possiede qualche bene, ha il diritto di lasciare passare due sere senza fare testamento e conservarlo presso di sé”. Il ‘Sahih di Muslim’ aggiunge: “Ibni Umar disse: ‘Da quando ho sentito questo hadith dal Profeta, non ho dormito una notte senza avere con me il mio testamento’”
Considerando quanto abbiamo ora detto, ci chiediamo: perché il Profeta avrebbe dovuto trascurare di fare testamento riguardo alla piú importante delle questioni, e cioè la questione della sua successione alla guida della nazione islamica? A nostro parere è assurdo che il Profeta, che è immune da qualsiasi peccato, colpa ed errore, consideri obbligatorio il testamento per i beni di questo mondo, e poi trascuri se stesso di fare testamento spirituale riguardo alla fondamentale questione della sua successione alla guida della grande e complessa società islamica.
Certo, il santo Messaggero d’Allah per ordine di Dio, l’Onnisciente, ha designato i suoi successori, gli immacolati Imam, che fino al Giorno del Giudizio, difenderanno l’Islam e saranno, per tutti gli uomini e in tutte le epoche, i sapienti del Libro di Dio e i conoscitori della Sua sacra legge.
È forse possibile pensare che Abú Bakr sia stato piú previdente del santissimo Profeta, in quanto lui, prima di morire, ha almeno designato un successore (Umar)?
Abbiamo il diritto di pensare che Aishah sia stata piú sollecita del Profeta nei confronti del suo popolo, in quanto disse ad Abdullah Ibni Umar: “Figlio mio, porgi i miei saluti a tuo padre e digli di non lasciare il popolo di Muhammad (S) senza una guida, di designare un successore che prenda il suo posto dopo la sua morte, poiché io temo che se la gente verrà abbandonata a se stessa andrà incontro a tumulti e sobillazioni”[27]?
Abdullah Ibni Umar conosceva forse meglio del Profeta le conseguenze del trascurare la questione della successione? In base a quanto narra Ibni Sa´d nel ‘Tabaqàt’ (vol. III, pag. 249), egli un giorno disse a suo padre: “Scegliti un successore!”? Umar gli rispose: “Chi dovrei nominare?”, e Abdullah disse: “Cerca di trovare qualcuno! Tu non sei il loro dio! Se tu convocassi il responsabile dei tuoi terreni, non ameresti che egli mettesse qualcuno al suo posto a curarli fino a quando non ritorna?”. “Certo”, rispose Umar. Abdullah disse ancora: “Se tu convocassi il responsabile del tuo gregge, non ameresti che egli mettesse qualcuno al suo posto a curarlo fino a quando non ritorna? “Certo” disse Umar, il quale, in seguito, costituí un consiglio di sei persone per designare il suo successore.
Muawiah è forse piú premuroso del Profeta, quando, per paura che il popolo musulmano si disperda al pari di un branco di pecore senza pastore, designa suo figlio Yazíd in qualità di suo successore? Abbiamo il diritto di pensare che il Profeta sia addirittura stato meno premuroso di Muawiah?[28]
Insomma, è logico pensare che il saggissimo profeta Muhammad (S) abbia abbandonato la giovane nazione islamica al proprio destino, al pari di un indifeso gregge senza pastore?
No, il santo Profeta non ha abbandonato la sua nazione, ha bensí designato, per ordine divino, il suo successore. A tal proposito, Il Signore Eccelso rivelò il seguente versetto: “O Messaggero, comunica ciò che è disceso su di te da parte del tuo Signore, e [sappi] che se non lo farai, non avrai comunicato il Suo Messaggio. E Allah ti proteggerà dalla gente…”[29]
Se volessimo qui citare le tradizioni inerenti alla designazione di Alí (A), da parte del Profeta, in qualità di suo successore (wasiyyah), non basterebbero decine e decine di volumi per citarli tutti. Ci limitiamo dunque a citare una sola di queste tradizioni, quella citata da Ibni Shahri Ãshúb nell’opera ‘Manàqibu Alí Ibni Abitàlib’ (vol. III, pag. 47), narrata dal libro ‘Al-wilàyah’ del celebre Tabarí. Un giorno Salmàn, il Persiano, disse al sommo Profeta: “Tutti i profeti hanno avuto un wasiyy. Chi è dunque il tuo wasiyy?”. Il Profeta rispose: “Il mio wasiyy, il mio successore, la migliore persona che io lascerò dopo di me, colui che pagherà i miei debiti e realizzerà ciò che ho promesso, sarà Alí Ibni Abitàlib (A)”
L’eminente studioso, Sayyid Abdu-z-zahrà Al-husaini Al-khatíb, nella preziosa opera ‘Masàdiru Nahju-l-balagah Wa Asàniduh’ (vol. I, pagg. 142-162), cita piú di settanta hadith estratti da libri di dotti sunniti, nei quali si parla dell’imam Alí (A) in qualità di wasiyy del Profeta e della wasàyah del nobile messaggero di Dio nei riguardi del santo Imam.
L’Allàmah Aminí, nella sua preziosa opera, ‘Al-ghadír’, cita decine di libri, alcuni dei quali sono stati scritti prima della nascita di Sayyid Raziyy, dal primo secolo dell’Egira, fino ai nostri giorni, i cui titoli sono ‘Al-wasiyyah’ e ‘Al-wilàyah’.
Dopo tutti questi hadith, dopo tutte le prove che abbiamo citato, nessuna persona dotata di sano intelletto si permetterebbe di fare l’obiezione che abbiamo citato all’inizio di questo paragrafo.
Nel Nahju-l-balagah animali quali il pavone, la formica, il pipistrello eccetera, vengono descritti con assoluta precisione. In questo libro sono inoltre usati complessi termini filosofici. Ora, i sapienti, i letterati e i poeti degli inizi dell’Islam, non sapevano nulla di questi concetti, di questi complessi termini filosofici. I musulmani sono venuti a conoscenza di tutto ciò solo dopo la traduzione [in lingua araba] dei libri di filosofia e delle fiabe greche e persiane, all’epoca degli Abbassidi. Questi sermoni del Nahju-l-balagah si addicono di piú all’epoca nella quale viveva Sayyid Raziyy che a quella di Alí (A)![30]
Coloro che fanno questa obiezione non hanno alcuna prova scientifica che ne provi la consistenza. È forse giusto considerare prerogative di un determinato popolo doti naturali quali la capacità di immaginare e descrivere, in modo preciso ed elegante, oggetti e animali? Le poesie dell’era preislamica e del primo periodo dell’avvento dell’Islam, non erano forse piene di questo tipo di descrizioni? La persona che ha sempre vissuto col santo Messaggero d’Allah, che è stata testimone di ogni versetto rivelato a questo nobile Profeta, che ha sempre goduto dei saggi insegnamenti dell’Inviato di Allah, non è forse superiore agli altri uomini della sua epoca? La persona alla quale il Profeta aveva esclusivamente dedicato un’ora del suo preziosissimo tempo per insegnargli i segreti che Dio gli aveva rivelato, deve forse essere considerata pari alla gente comune?[31]
A questo punto è possibile che qualcuno obietti ancora, affermando che pur accettando che gli abili oratori e i raffinati poeti dell’era preislamica e del primo periodo dell’avvento dell’Islam siano stati in grado di descrivere animali quali il cavallo, il cammello, la formica, la cavalletta, animali che ogni giorno vedevano, è tuttavia difficile accettare che avessero avuto la capacità di descrivere animali quali il pavone, che non esisteva nella zona in cui loro vivevano. Come si può dunque accettare che, in base a quanto dice Sayyid Raziyy nel Nahju-l-balagah, Alí (A) abbia detto, a proposito degli attributi del pavone e dell’accoppiamento di questo straordinario animale: “Io ti informo di ciò che ho visto con i miei occhi…”[32]
Ibni Abi-l-hadid, nel suo commento al Nahju-l-balagah (vol. IX, pag. 270), risponde a questa obiezione affermando: “È vero, a Medina non esistevano pavoni, ma a Kufa, che era diventata la capitale dell’Islam, esistevano: in questa città arrivava tutto da tutti i posti del mondo”
Oltre a ciò, è possibile rispondere a questa obiezione ricordando che il Signore Eccelso insegnò al primo dei Profeti, il santo Adamo, Padre dell’Uomo, i nomi e gli attributi di tutte le cose, e lo stese fece con il Sigillo dei Profeti, il santo Muhammad (S), il quale, a sua volta, li insegnò al suo vicario, il santo Alí (A), dicendo di lui: “Io sono la città della sapienza e Alí ne è la porta”. Certo, Alí (A) era a conoscenza di cose che nessuno conosceva, vedeva ciò che gli altri non vedevano e sentiva cose che gli altri non potevano sentire. Ecco perché, a volte, Alí (A) parla, con assoluta precisione, di cose che nessuno, ai suoi tempi, poteva sapere.
Alcuni dei sermoni del Nahju-l-balagah, contengono notizie riguardo gli uomini e i popoli del passato, e gli accadimenti del futuro, come la conquista di Kufa da parte di Hajjàj, la fondazione della città di Baghdad e la conquista di questa città da parte di Gengiskan, dei Tartari e dei Mongoli. Ora, è improbabile che una persona come Alí (A) abbia preteso di conoscere il ‘ghayb’ [l’occulto, l’invisibile], poiché solo Dio conosce il ‘ghayb’: “Sono presso di Lui le chiavi del ‘ghayb’, che nessuno conosce all’infuori di Lui…”. Probabilmente le notizie inerenti a questi eventi storici sono state aggiunte da Sayyid Raziyy o da altre persone, dopo che sono accaduti, e poi attribuite ad Alí (A).
Considerando ciò che abbiamo detto nella risposta alla quinta obiezione, si arriva alla conclusione che l’imam Alí (A) era sicuramente a perfetta conoscenza del passato e degli avvenimenti del futuro, e ciò grazie ai divini insegnamenti del santissimo Profeta, il quale era collegato all’infinita fonte della sapienza divina.
L’Allamah Aminí, nella sua storica opera ‘Al-ghadír’ (vol. V, pagg. 52-59), ha dato la migliore risposta a questa obiezione, della quale, di seguito, riporteremo un riassunto.
“Tutti gli uomini possono venire a conoscenza del ghayb e degli eventi passati e futuri, a condizione però che questa conoscenza venga presa da chi l’ha ricevuta, a sua volta, dal Signore Altissimo. La vera e incrollabile fede in Dio, negli angeli, nei Libri Ispirati, i Profeti Divini, il Giorno del Giudizio, il Paradiso, l’Inferno, la vita ultraterrena, ecc., non sono forse chiari esempi di conoscenza del ghayb? Il Signore Eccelso, nel Corano, descrive i timorati di Dio dicendo: ‘…quelli che sono certi dell’aldilà…’[33]. In un altro versetto dice poi: ‘Paradisi eterni, che il Misericordioso ha promesso ai Suoi servi nel ghayb…’[34]
Bisogna comunque tenere presente che il profeta e l’imam sono in grado di venire a conoscenza di maggiori segreti divini, e ciò per la delicata missione che viene loro affidata e che hanno il dovere di compiere. A tal proposito il sacro Corano dice: ‘Ti raccontiamo tutte le storie dei [Nostri] Profeti, ciò con cui rinsaldiamo il tuo cuore…’[35]. Nel nobile Corano, dopo la storia della casta Maria (III:44) e dei fratelli del probo profeta Giuseppe (XII:102), leggiamo: “Queste sono delle notizie del ghayb, che ti riveliamo…”
È ovvio che il Signore Eccelso concede questo particolare tipo di conoscenza del ghayb solo ai suoi diletti amici, e ciò è dimostrato dai seguenti due sacri versetti coranici: “[Allah] è il conoscitore del ghayb, e non manifesta il Suo ghayb a nessuno, se non ai messaggeri di cui si compiace…”[36]. “…[Allah] conosce ciò che è davanti a loro e quello che è dietro di loro, e, della Sua sapienza, essi non apprendono se non ciò che Egli vuole…’[37]”
Anche se il nobile versetto “…a Lui appartengono le chiavi del ghayb…”, usata nell’argomentazione citata all’inizio, dimostra che solo Dio conosce il ghayb, bisogna tuttavia tenere presente che altri versetti del Corano dicono che Dio può informare del Suo ghayb i profeti, gli amici e i credenti di cui Egli piú si compiace, anche se i profeti e gli amici di Dio godono in maggiore misura di questa straordinaria grazia del Signore.
È bene inoltre sapere che il santo profeta dell’Islam e gli eredi della sua sapienza, gli immacolati Imam, senza il permesso di Dio non potevano usare ciò che Egli aveva insegnato loro del ghayb né trasmetterlo agli altri.
È bene sapere che l’obiezione che abbiamo citato all’inizio e la risposta a essa, esiste anche nello stesso Nahju-l-balagah[38]. L’imam Alí (A), nell’anno trentasei dell’Egira, dopo la guerra di Jamal, nella città di Bassora, disse a Ahnaf Ibni Qais, uno dei compagni del Profeta: “O Ahnaf, è come se lo vedessi attaccare la città di Bassora con un esercito che non alza povere e non fa alcun rumore”. Con ciò il santo Imam predisse le disgrazie che avrebbero colpito in futuro la città di Bassora, i sanguinosi attacchi di Sahibu-z-zanj e dei Mongoli. A questo punto, uno dei presenti, che aveva sentito questa predizione, affermò: “O Principe dei Credenti, parli del ghayb? Lo conosci forse?”. L’Imam sorrise e disse all’uomo, che apparteneva alla tribú dei Baní Kalb: “O fratello della tribú dei Bani Kalb, questa non è conoscenza del ghayb, è bensí ciò che ho imparato dal sommo Profeta. La scienza del ghayb non è altro che la conoscenza del Qiàmah [Giudizio Universale] e ciò che Allah ricorda in questo versetto: ‘In verità, la scienza dell’Ora è presso Allah, Egli fa discendere la pioggia e conosce quel che v’è negli uteri. Nessuno sa ciò che otterrà domani e nessuno sa in che terra morirà. In verità, Allah è sapiente e informato’[39]”
L’imam Alí (A) continuò dunque dicendo: “Allah conosce ciò che esiste negli uteri, se è maschio o femmina, brutto o bello, generoso o avaro, salvo o dannato. Egli sa chi brucerà nel fuoco dell’Inferno e chi andrà in Paradiso insieme ai Profeti. È questa dunque la scienza del ghayb che solo Dio conosce e che ha insegnato al Suo Profeta, ed egli l’ha insegnata a me e ha pregato affinché il mio petto la comprendesse, il mio cuore l’accogliesse in sé…”
Quanto abbiamo detto finora è piú che sufficiente a dimostrare l’inconsistenza di questa sesta obiezione. Nel Corano e nelle tradizioni islamiche esistono comunque moltissime altre prove con le quali è possibile confutare simili obiezioni.
Notiamo che nel Nahju-l-balagah si biasima moltissimo il ‘mondo’, e in molti dei suoi sermoni e delle sue sentenze s’invita la gente a non badare al mondo, a volgergli le spalle, a seguire la virtú, a rinunciare ai piaceri materiali e ad abbandonare le fugaci cose terrene, esattamente nello stesso modo in cui Gesú, figlio di Maria, esortava i suoi seguaci all’ascesi e al distacco dagli istinti e dal mondo, e li metteva in guardia dalle sue lusinghe. Il Profeta disse però: “Non esiste ruhbàniyyah [ascesi] nell’Islam!”, nessuno ha cioè il diritto di abbandonare completamente il mondo e andare a vivere da solo per tutta la vita, abbandonando la società. Concludiamo dunque che questo tipo di parole [riportate da Sayyid Raziyy nel Nahju-l-balagah] non possono assolutamente appartenere ad Alí (A).[40]
La denuncia della bassezza e della caducità di questo mondo, non è prerogativa di alcune delle legislazioni divine, quale quella del santo Gesú. Tutte le religioni divine hanno raccomandato ai loro seguaci di volgere le spalle al mondo e di fare attenzione alle sue lusinghe. A tal proposito, in una tradizione leggiamo: “L’amore per il mondo è il principio di ogni errore”
Anche l’Islam, che è la piú perfetta delle religioni, raccomanda ai suoi seguaci di non badare al mondo, di fare attenzione alle sue minacce e ai suoi pericoli. A tal proposito, esistono infatti molti versetti e hadith.
· Nel sacro Corano, nella Sura del Ferro (XX versetto), il Signore Altissimo dice: “Sappiate che, in verità, la vita di questo mondo non è altro che un gioco e un trastullo, un orpello, reciproca iattanza fra di voi, vana contesa nei beni e nei figli, come una pioggia, il cui raccolto stupisce i miscredenti, e poi inaridisce, lo vedi ingiallire, poi si riduce a stoppie. Nell’altro mondo vi sarà tremendo castigo e perdono [proveniente] da Dio e consenso. La vita di questo mondo non è altro che materia di inganno”
In un hadith il Profeta fa le seguenti raccomandazioni ad Abú Zhar: “O Abú Zhar, giuro su Colui nelle Cui mani è l’anima di Muhammad (S), che se il mondo avesse avuto il valore dell’ala di un moscerino o di una zanzara, sicuramente Dio non avrebbe concesso nemmeno un sorso d’acqua al miscredente. O Abú Zhar, il mondo e ciò che v’è in esso sono stati maledetti, eccetto ciò che viene usato per compiacere Iddio. Nulla è piú odiato da Dio del mondo! O Abú Zhar, Dio rivelò a mio fratello Gesú: ‘Non amare il mondo, poiché Io non lo amo; ama invece l’aldilà, poiché esso è il luogo del ritorno e la dimora eterna’”[41]
Il Nahju-l-balagah biasima il mondo in questo stesso identico modo, mettendone in evidenza la caducità attraverso straordinarie parabole: “Il mondo è come il serpente: la sua pelle è morbida, ma al suo interno v’è un letale veleno. Il sedotto ignorante lo segue, mentre il saggio intelligente si tiene lontano da esso”[42]. “Il vostro mondo ha per me meno valore dello starnuto di una capra”[43]. “Giuro su Allah che, ai miei occhi, il vostro mondo ha meno valore di un osso nudo di maiale nelle mani di un lebbroso”[44]. “…e, in verità, il vostro mondo ha, per me, meno valore di una foglia nella bocca di una cavalletta, mentre la mastica”[45]. “L’uomo libero non è forse colui che lascia questo residuo di cibo rimasto tra i denti [il mondo!], a chi ne è piú ‘degno’?”[46]. “La gente del mondo è come coloro che vengono trasportati in una carovana mentre dormono”[47]
Quanto abbiamo detto dimostra in modo assai chiaro che il metodo usato dal Nahju-l-balagah nel biasimare il mondo e mettere la gente in guardia dalle sue pericolose insidie, è in perfetta armonia con lo spirito dell’Islam, del santo Corano e delle tradizioni del sommo Profeta.
Oltre a ciò è bene sapere che se da una parte il Nahju-l-balagah biasima il mondo, dall’altra ne mette in evidenza gli aspetti positivi: “…Il mondo è la dimora della verità, della sincerità per chi si comporta con esso con verità, con sincerità; è la dimora della salute per chi lo comprende, è la dimora della ricchezza per chi in esso fa provviste [per l’aldilà], è la dimora dell’insegnamento per chi da esso trae insegnamento. Esso è il ‘masjid’ [luogo in cui ci si prosterna] degli amici di Dio, il luogo in cui pregano gli angeli, il luogo dove discende la rivelazione di Dio…”[48]
In uno dei sermoni del Nahju-l-balagah, leggiamo anche: “Chiunque guardi con saggezza al mondo, esso gli farà vedere la verità, lo informerà [dei suoi segreti]. Colui invece che fisserà il suo sguardo sul mondo, sarà da esso accecato”[49]
Per concludere ricordiamo un’altra delle tradizioni del Nahju-l-balagah, utile a dimostrare l’inconsistenza dell’obiezione ricordata all’inizio di questo paragrafo. Il Nahju-l-balagah narra che dopo la guerra di Jamal, l’imam Alí (A) si recò a Bassora per fare visita ad Alà’ Ibni Ziad Harithiyy, che era uno dei suoi compagni; andò dunque a casa Alà’, che era una casa molto bella, assai sontuosa e grande. Quando Alí (A) vide questa casa disse: ‘Cosa ne fai di questa casa nel mondo, mentre ne hai piú bisogno nell’aldilà? Certo, se vuoi, con essa puoi raggiungere i premi dell’aldilà! Con essa puoi ricevere ospiti, fare del bene ai tuoi parenti, pagare i tuoi debiti. Con essa potrai allora conquistarti i meriti dell’aldilà’. Alà’ disse: ‘Volevo allora dirti che non approvo il comportamento di mio fratello!’. ‘Perché, cosa fa?’, disse l’Imam. Alà’ rispose: ‘Si è messo addosso un mantello di lana e ha completamente abbandonato il mondo’. L’imam Alí (A) disse: ‘Fatelo venire qui!’. Quando il fratello di Alà’ venne, Alí (A) gli disse: ‘O nemico di te stesso, Satana ti ha traviato! Abbi almeno pietà di tua moglie e dei tuoi figli! Pensi forse che Dio [ti] ha permesso i suoi puri doni, ma non ama che tu goda di essi? Tu non sei all’altezza di ciò!”. Asim disse: ‘O Principe dei Credenti, perché allora tu ti vesti e ti nutri come i poveri?’. Il nobile Alí (A) rispose: ‘Guai a te! Io non sono come te! Dio ha ordinato alle Guide del Vero di vivere come gli indigenti, affinché questi non vengano spinti dalla povertà a ribellarsi’”[50]
Quanto abbiamo detto finora, è piú che sufficiente a dimostrare l’inconsistenza di questa obiezione.
In molti dei sermoni e delle sentenze del Nahju-l-balagah vengono ricordate le difficoltà della morte, le tenebre della tomba e i problemi della vita ultraterrena, ed è naturale che ricordare queste cose distrugge la tranquillità spirituale degli uomini e li terrorizza. È perciò molto improbabile che questi sermoni e queste sentenze appartengano ad Alí Ibni Abitàlib (A).[51]
Se ricordare agli uomini cose quali la morte e il Giudizio Universale, non è cosa buona, è per loro un pericolo, perché allora il sacro Corano e le tradizioni del santo Profeta insistono cosí tanto su questo argomento? Il Signore Eccelso, nel Suo Verbo dice: “La morte vi coglierà ovunque sarete…”[52]. “Ognuno gusterà la morte…”[53]. “Tutto quello che è su di essa [sulla terra] è destinato a perire”[54]. “…Tutto è perituro, eccetto il Suo Volto…”[55]
In molti dei libri di hadith, sciiti e sunniti, troviamo diverse tradizioni del sommo Profeta su questo argomento. Nell’opera Tuhafu-l-uqúl, è riportata la seguente tradizione del Messaggero d’Allah: “[Che cosa è successo?] Perché vedo che l’amore per il mondo ha soggiogato gran parte della gente? Sembra quasi che la morte sia stata scritta per gente diversa da loro! Sembra quasi che il rispetto dei diritti sia stato imposto per gente diversa da loro! Anzi, sono convinti che le notizie che sentono dei morti [siano false ed essi] siano come le persone in viaggio, che presto ritorneranno…”[56]
Oltre a ciò, è possibile affermare che dal momento che il ricordo della morte ha uno straordinario effetto nello sviluppo spirituale dell’essere umano, nell’Islam è stato dato a questo argomento una grande importanza. In effetti, se l’uomo ricordasse continuamente la morte e fosse sempre pronto ad accoglierla, riuscirebbe a ottenere i seguenti risultati:
diverrebbe nobile e generoso;
allontanerebbe da sé la cupidigia e non sarebbe bramoso delle cose materiali;
sarebbe paziente di fronte ai problemi e riuscirebbe a sopportare ogni avversità;
sarebbe sempre riconoscente a Dio, sia nei momenti felici sia nelle avversità;
sarebbe sempre deciso e determinato;
vivrebbe in modo dignitoso e non si farebbe mai umiliare;
diverrebbe padrone delle proprie passioni e sarebbe sempre in grado di controllarle;
eseguirebbe i lavori di questo mondo con assoluta calma e tranquillità (come se, in esso, dovesse vivere in eterno), mentre eseguirebbe quelli relativi all’aldilà con assoluto impegno, senza dimostrare la minima negligenza (come se dovesse morire proprio domani e avesse il timore di perdere i meriti e le ricompense che il Signore ha riservato a chi compie il bene).
I compagni probi del Messaggero di Dio, come Salman e Abú Zhar, ricordavano costantemente la morte, non si facevano soggiogare dalle proprie passioni e possedevano grande dignità e rispetto. Molti di loro morirono martiri e diedero un notevole contributo alla vittoria dell’Islam e alla diffusione della fede islamica. Dal momento in cui i musulmani hanno dimenticato la morte e si sono fatti soggiogare dalle loro passioni, da quando hanno pensato solo a soddisfare i propri istinti animali, hanno purtroppo perso la loro dignità umana, la loro grandezza, la loro nobiltà, la loro potenza.
Quanto abbiamo detto ha dimostrato che ricordare costantemente la morte è il miglior strumento per elevarsi spiritualmente e conquistare il consenso divino. Al contrario, dimenticarla porta alla perdizione e causa il consenso di Satana. Il fatto che il Nahju-l-balagah continua a ricordare la morte è uno dei pregi di questa sublime raccolta di tradizioni dell’Imam dei Timorati. È per questo stesso motivo che Ibni Abi-l-hadid, nel suo commento al Nahju-l-balagah, commentando il sermone ‘Al-hàkumu-t-Takàthur, afferma: “Giuro su Colui sul Quale giurano i popoli, che io, negli ultimi cinquant’anni, ho letto questo sermone piú di mille volte e ogni volta sono stato colto da paura accompagnata da un profondo senso di consapevolezza; ogni volta, la lettura di questo sermone, lasciava nel mio cuore un profondo segno, mi faceva tremare. Ogni volta che ho riflettuto sul suo contenuto, mi sono venuti in mente i miei parenti e amici defunti e ho sempre pensato che in questo sermone l’Imam si rivolge anche a me. Molti predicatori, molti oratori hanno trattato questo argomento, e molte volte ho avuto modo di leggere e sentire le loro parole, tuttavia mai hanno avuto su di me lo stesso effetto che ha avuto questo sermone”[57]
Quanto abbiamo detto finora è piú che sufficiente a dimostrare l’inconsistenza dell’obiezione citata all’inizio.
La comprensione delle condizioni della società, la conoscenza dei punti deboli dei governi in carica, la critica delle condizioni vigenti, all’epoca di Alí (A) non era assolutamente cosa comune, e si diffuse solo nelle epoche successive. Nei sermoni del Nahju-l-balagah si criticano capi di stato, ministri, governatori, giudici e dotti, con vari espressioni; si contesta fortemente il modo di governare, la condotta degli uomini di governo, la discriminazione esistente nello spartire i beni pubblici e le ricchezze comuni e l’ignoranza dei giudici. Tutto ciò prova che il Nahju-l-balagah non appartiene ad Alí (A).
In confronto alle altre obiezioni viste, questa è la piú inconsistente, la piú incongruente. Com’è infatti possibile chiudere gli occhi dinanzi alla realtà e affermare che, siccome tali cose, all’epoca, non erano comuni e solo dopo si sono diffuse tra la gente, anche il Diletto di Allah e la Porta della Sapienza del Profeta era ignaro di esse? Chi fa questo tipo di obiezioni dimentica che Alí (A), fin da piccolo, visse sempre col sommo Profeta e si giovò ininterrottamente della sua sapienza, della sua esperienza e della sua spiritualità.
Dopo la morte del santo Profeta sono accadute cose importanti, tra i compagni del Profeta che erano esperti di diritto islamico sorsero forti divergenze sui comandamenti divini; ognuno di loro smentiva gli altri, e in questo mondo rimasero uccise molte persone innocenti, furono usurpati i beni della gente e calpestati i loro diritti. Tutto ciò non era forse sufficiente a permettere ad Alí (A) di criticare i governi in carica, le istituzioni e le persone che si erano rese responsabili di tanta corruzione? Alí (A) non era forse capace di difendere i diritti della gente e di opporsi agli uomini di potere disonesti, ai giudici corrotti e ai dotti avidi?
Dal momento che alcuni sermoni e alcune sentenze del Nahju-l-balagah sono state attribuite anche ad altre persone – come la sentenza n. 289, che è stata attribuita anche ad Abdullàh Ibni Muqaffa´, o il sermone n. 203, che è stato attribuito anche a Suhbàn Ibni Wà’il – è improbabile che tutto il Nahju-l-balagah appartenga ad Alí (A), considerando soprattutto che molti dei suoi sermoni non compaiono nei celebri libri di letteratura araba.[58]
Abbiamo già dimostrato che è impossibile che il probo Sayyid Raziyy abbia attribuito una tradizione al santo imam Alí (A) senza prima averne accertato l’autenticità.
Oltre a ciò, bisogna sapere che alcuni dotti[59] hanno attributo la sopraccitata sentenza all’imam Hasan, anche se Zimakhshariyy, nel libro Rabi´u-l’abràr (vol. I, cap. ‘Al-khayru Wa-s-salàh’), la attribuisce, come fa il Raziyy, all’imam Alí (A). Anche Ibni Abi-l-hadid Al-mu´taziliyy, nel suo commento al Nahju-l-balagah (vol. XIX, pag. 183), attribuisce la sentenza a santo Alí (A). Ibni Maytham Al-bahràniyy, nel suo commento al Nahju-l-balagah (vol. V, pag. 389), afferma che lo stesso Abdullàh Ibni Muqaffa´ attribuisce questa sentenza al nobile imam Hasan. Forse, per il fatto che era a tutti noto che questa sentenza apparteneva all’imam Alí (A) o all’imam Hasan, Abdullàh Ibni Muqaffa´ non ha creduto necessario citarne la provenienza, oppure l’ha citata, però, mani impure…
In ogni caso, questa sentenza non può che provenire dalla limpida fonte della sapienza della santa Ahlu-l-bayt.
Le parole di Alí (A) erano cosí celebri tra la gente, che gli oratori le citavano nei loro discorsi senza dire – e questo per motivi di taqiyyah o per dimenticanza o per altri motivi – a chi appartenessero.
Shaykh Muhammad Alí Dayúz, appartenente alla setta degli ‘Abàdhiah’, docente del Ma´hadu-l-hayàh in Algeria, nel libro ‘Tarikhu-l-maghribu-l-Kabir’ (vol. III, pag. 588), afferma che Ibnu-s-saghír dice: “Gli uomini di governo appartenenti alla setta Abàdhiah, nel governo ‘Rustamiyy’, avevano concesso libertà assoluta a tutte le religioni e le sette, e dal momento che essi amavano e rispettavano profondamente Alí Ibni Abitàlib (A) ed erano fortemente attratti dall’impareggiabile eloquenza delle sue parole, i predicatori e gli oratori, nelle preghiere del venerdí e in quelle in congregazione, recitavano, sui pulpiti, i sermoni di Alí (A)…”
In base a ciò, concludiamo che se Ibni Muqaffa´, ha riportato alcune delle parole di Alí (A) nel suo libro, lo ha fatto perché era fortemente attratto dall’impareggiabile eloquenza e dal profondo contenuto delle parole di questo nobile Imam. Egli, all’inizio del suo libro ‘Al’adabu-s-Saghír’, afferma: “Io, in quest’opera ho citato quelle parole che la gente ha conservato e che donano nuova vita, luce e splendore al cuore…”
Quanto abbiamo detto è confermato anche da quanto dice il prof. Muhammad Alí Kurd Alí, nell’opera Umarà’u-l-bayàn (vol.I, pag. 10): “Invero Ibni Muqaffa´ ha appreso l’eloquenza dai sermoni di Alí Ibni Abitàlib (A)”
Quanto abbiamo finora detto ci sembra piú che sufficiente per dimostrare l’inconsistenza dell’obiezione sulla sentenza n. 289.
Per quanto riguarda invece l’obiezione sul sermone n. 203, nella quale lo si cerca di attribuire a Suhbàn Ibni Wà’il, possiamo subito dire che gli esperti di oratoria sanno benissimo che i sermoni di Suhbàn Ibni Wà’il, dal punto di vista del contenuto e dello stile, non raggiungono i livelli del sopraccitato sermone, e il fatto che lui lo abbia recitato non vuol dire che gli appartiene!
Oltre a ciò possiamo aggiungere che grandi narratori di tradizioni[60] avevano già, prima di Sayyid Raziyy, narrato questo sermone, attribuendolo al Principe dei Credenti.
Anche questa obiezione si è dunque dimostrata inconsistente.
[19] Estratto dalla prefazione dello Shaykh Muhyi-d-din Abdu-l-hamid al commento del Nahju-l-balagah dello Shaykh Muhammad Abduh.
[20] ‘Tafsíru Fathi-l-qadir’ di Shawkàniyy (vol. II, pag. 185). ‘Tafsíru Ibni Kathir Ad-damishqiyy’ (vol. II, 273). ‘Tafsíru-t-tabariyy’ (vol. VI, pag. 131).
[21] ‘Shawàhidu-t-tanzil’ di Haskàniyy Hanafiyy (pagg. 445-453, 610-626). Manàqibu Mughàziliyy (pagg. 324, 370, 371). Al-kashàf di Zimakhshariyy (vol. III, pag. 514)…
[22] Nahju-l-balagah, sermone n. 97, pag. 143-145 (Ed. Daru-th-thaqalain – Qum).
[23] Atharu-t-tashayyu´ Fi-l’adabi-l’arabiyy, pag. 66.
[24] Uno dei famosi oratori dell’epoca di Muawiah, che viveva nella città di Damasco.
[25] Atharu-t-tashayyu´ Fi-l’adabi-l’arabiyy, pag. 56. ‘Al’Imam Alí’, di Ahmad Zakiyy Safwat, pag. 131.
[26] Atharu-t-tashayyu´ Fi-l’adabi-l’arabiyy, pag. 56. ‘Al’Imam Alí’, di Ahmad Zakiyy Safwat, pag. 131.
[27] ‘Al’imàmah Wa-s-siàsah’ di Ibni Qutaibah Daynawariyy (vol. I, pag. 22).
[28] Tarikhu-t-tabariyy, vol. VI, pag. 170.
[29] Corano V: 67.
[30] Estratto dall’introduzione dello Shaykh Muhyiddin Abdu-l-hamid al commento al Nahju-l-balagah dello Shaykh Muhammad Abduh.
[31] Khasà’isu Amiri-l-mu’minin Alí Ibni Abitàlib, pag. 168, cap. 37, hadith n. 1 (Ed. Daruth-thaqalain)
[32] Nahju-l-balagah, sermone 165.
[33] Corano II: 3.
[34] Corano XIX: 61.
[35] Corano XI: 120.
[36] Corano LXXII: 26, 27.
[37] Corano II: 255.
[38] Nahju-l-balagah, sermone 128, pag. 191 (ed. Daru-th-thaqalain – Qum)
[39] Corano XXXI: 34.
[40] Atharu-t-tashayyu´ Fi-l’adabi-l’arabiyy, pag. 60.
[41] Makàrimu-l’akhlàq, vol. II, pag. 368.
[42] Nahju-l-balagah, sentenza n. 119, pag. 520 (ed. Daru-th-thaqalain - Qum).
[43] Nahju-l-balagah, sermone III, pag. 270 (ed. Daru-th-thaqalain - Qum).
[44] Nahju-l-balagah, sentenza n. 236, pag. 540 (ed. Daru-th-thaqalain - Qum).
[45] Nahju-l-balagah, sermone n. 224, pag. 362 (ed. Daru-th-thaqalain - Qum).
[46] Nahju-l-balagah, sentenza n. 456, pag. 585 (ed. Daru-th-thaqalain - Qum).
[47] Nahju-l-balagah, sentenza n. 64, pag. 509 (ed. Daru-th-thaqalain - Qum).
[48] Nahju-l-balagah, sentenza n. 131, pag. 523 (ed. Daru-th-thaqalain - Qum).
[49] Nahju-l-balagah, sermone 82, pag. 98 (ed. Daru-th-thaqalain - Qum).
[50] Nahju-l-balagah, sermone 209, pag. 336 (ed. Daru-th-thaqalain - Qum).
[51] Atharu-t-tashayyu´ Fi-l’adabi-l’arabiyy, pag. 61.
[52] Corano IV: 78.
[53] Corano XXI: 35.
[54] Corano LV: 26.
[55] Corano XXVIII: 88.
[56] Tuhafu-l-uqúl, pag. 29.
[57] Commento al Nahju-l-balagah di Ibni Abi-l-hadid, vol. XI, pag. 153.
[58] Tarjumatu ‘Alí Ibni Abitàlib’, di Ahmad Zakiyy Safwat, pag. 122.
[59] Ibni Qutaybah, nel libro Uyunu-l’akhbàr, vol. II, pag. 355. Ibni Shu´ah Harràni, nell’opera Tuhafu-l´uqúl, pag. 234. Al-khatib Al-baghdadiyy, nel libro Tarikhu Baghdad, vol. 12, pag 315.
[60] Shaykh Saduq nel libro Al-amàli (pag. 132, majlis n. 23) e nell’opera Uyunu Akhbàri-r-ridhà (vol. I, pag. 298). Shaykh Mufíd nell’opera ‘Al’irshàd’ (pag. 139). Lo Shaykh Tabarsiyy nel ‘Mishkàtu-l’anwàr’ (pag. 243). Shaykh Warràm nel ‘Majmu´atu Warràm’ (pag. 66).